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Una rete energetica sul Mar del Nord: il futuro delle fonti rinnovabili

Una rete energetica costruita sul Mar del Nord interamente alimentata da fonti rinnovabili. Questo è l’ambizioso progetto di 9 Paesi Europei – Germania, Francia, Belgio, Olanda, Lussemburgo, Danimarca, Svezia, Irlanda e Gran Bretagna – per far fronte agli impegni sottoscritti a Copenaghen.

Questa rete da 31 miliardi di euro, il cui progetto definitivo dovrebbe essere pronto per l’autunno, è destinata a coprire il 20% del fabbisogno energetico totale di questi paesi entro il 2020.

Questo sorprendente network collegherà tramite cavi sottomarini l’energia prodotta dalle turbine eoliche del nord della Scozia con quella proveniente dai pannelli solari tedeschi ed ancora sfrutterà l’energia delle onde delle coste belghe e danesi nonché l’energia idroelettrica proveniente dai fiordi norvegesi. Tale sistema sarà inoltre in grado di accumulare l’energia non immediatamente utilizzata.

Una vera e propria sfida capace di convincere anche i più scettici riguardo le potenzialità delle fonti rinnovabili.

La stessa Commissione Europea, entro la fine del 2010, dovrebbe pubblicare un rapporto sulla progettazione di una rete di energia rinnovabile nel Mar del Nord, i cui risultati potrebbero andare ad alimentare il già esistente progetto a 9.

Tra le idee in cantiere, anche il coinvolgimento del Maghreb. Gli scienziati dell’IE (Institute for Energy, istituto scientifico della Commissione Europea) sostengono infatti che all’Europa basterebbe solo lo 0,3% della luce solare assorbita dal Sahara e dalle altre zone desertiche mediorientali per soddisfare il suo fabbisogno energetico.

Copenhagen… vincitori e vinti

Sullo sfondo della Conferenza è ben visibile e palpabile lo scontro tra i due colossi, Cina e America, i veri protagonisti dell’intero Summit. Uno scontro che ha visto vincitrice la Cina e la sua “politica della non ingerenza”, ben esplicata dalla dichiarazione del capodelegazione cinese Xie Zhenhua: «Noi cinesi abbiamo preservato il nostro interesse nazionale e la nostra sovranità». Le ultime ore di trattative hanno visto un Obama affannato, oltre che nel cercare un accordo, nel cercare gli stessi delegati di Cina e India, opportunamente scomparsi nei meandri dei propri alberghi.

Ai margini delle trattative Ue e Giappone, snobbati dal Presidente americano. L’Ue in particolare ha portato avanti le sue istanze con dichiarazioni coraggiose, offrendosi immediatamente per il finanziamento del Fondo “Fast Start” e proponendo una riduzione del 30% delle emissioni entro il 2020. Una marginalizzazione ben espressa dalla delusione del Presidente Sarkozy e dal “nervosismo” a fine Conferenza della Cancelliera Merkel.

Tuttavia non è detto che il bilancio del Consesso sia totalmente negativo. I due principali protagonisti della scena dell’inquinamento globale, Stati Uniti e Cina, che totalizzano assieme il 41 per cento delle emissioni, sono stati coinvolti nel processo di stabilizzazione del clima. Erano ai margini della scena e sono diventati attori. Entrambi hanno buoni motivi per fare di più sia per fuggire da un problema crescente che per rafforzare la parte più dinamica delle loro industria, quella che si candida a conquistare un ruolo di primo piano nel settore della green economy. Aspettare il prossimo vertice internazionale? O sarà troppo tardi per il destino del pianeta?

Disfatta Copenhagen?

Il clima aspettava la svolta e invece è delusione. La salute del pianeta sembra essere rimandata a data da destinarsi. È una fine con più ombre che luci questa della 15esima Conferenza delle Parti della Convenzione Onu sui cambiamenti climatici. Il risultato di un lavoro mastodontico e di una partecipazione mai vista a queste Conferenze è un accordo minimo, in 12 punti, non vincolante né a livello politico né legale.

Una Conferenza concitata, piena di colpi di scena, arresti e riprese. Si pensi all’abbandono dei lavori da parte dei Paesi africani nel mezzo della settimana, riconquistati dalla presidenza danese solo dietro promessa di una maggiore attenzione agli impegni post-Kyoto dei Paesi industrializzati. O ancora alle ambigue dichiarazioni cinesi, che ora manifestano la sfiducia in un accordo vincolante, ora la necessità di una soluzione alle problematiche climatiche. Un summit tacciato di antidemocraticità, in particolare dai paesi latini, visto il frequente ricorso a riunioni ristrette, tra “quelli che contano”, complice la presidenza danese, accusata di poca trasparenza dai PVS. Un accordo che, a fronte di una partecipazione epocale (si contano ben 42.515 presenze al 14 dicembre) è stato deciso negli ultimi attimi disponibili, in una riunione ristretta a Cina, India, Sudafrica e America, sulla spinta di un Obama preoccupato dall’influsso del fallimento del Vertice sulla sua immagine.